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UN MIRTO CON... ANTONIO LOGOZZO: "A Cagliari ho fatto solo un anno, ma vissuto alla grande. L'unico rimpianto è quello di non essere rimasto più a lungo. Il gol di Graziani al Sant'Elia? Fallo nettissimo. Il calcio di oggi non mi rappresenta più"

di Matteo Bordiga

Antonio Logozzo, con quello sguardo da pistolero appena uscito da un film di Sergio Leone e quegli inconfondibili baffoni che ne sovrastano il sorriso fiero e sospeso un po’ a metà, è un uomo che viene - orgogliosamente - da un altro tempo. È un uomo poco incline al compromesso - in primis a quello verbale - e abituato a chiamare le cose col loro nome. Pane al pane, vino al vino.   

Antonio Logozzo è un uomo dai valori forti e dallo spirito giovane, nonostante i - quasi - settant’anni certificati sulla sua carta di identità. Un uomo dai modi schietti e genuini e dall’infinita generosità, come quando correva sui campi dietro a un pallone e faceva a sportellate - robuste, ma mai cattive - con mammasantissima quali Roberto Boninsegna, Ciccio Graziani e Paolino Pulici.

Devi dargli rigorosamente del “tu”: il “lei” non è neppure contemplato nel suo vocabolario. Non regala complimenti e non dispensa banalità, ma è custode e testimone fedele di un’epoca in cui il calcio, parola sua, “era un’altra cosa”. Non necessariamente migliore o peggiore, ma sicuramente un’altra cosa.

Antonio, tu hai vissuto a Cagliari una sola stagione, ma hai lasciato un ottimo ricordo di te ai tifosi rossoblù. Come ricordi la tua esperienza in Sardegna?

“Guarda, mi sono trovato meravigliosamente bene, tanto a livello calcistico quanto dal punto di vista umano. Ho stretto un sacco di amicizie profonde. L’unico mio rammarico, e ne parlo spesso con i miei ex compagni in rossoblù come Piras, Brugnera, Quagliozzi e così via, è proprio quello di essere rimasto troppo poco a Cagliari per ritagliarmi uno spazio significativo nella storia del club isolano.”

Però il campionato da te disputato nell’Isola – stagione 1981-’82 – è coinciso con una salvezza particolarmente avventurosa e sudata, culminata nello storico 0-0 del Sant’Elia contro la Fiorentina in lotta per lo scudetto.

“Per carità, è stato un anno intenso. Ho totalizzato diciotto presenze, al netto di qualche infortunio che mi ha limitato e penalizzato. I rapporti tra noi compagni di squadra erano ottimi: eravamo molto legati. In campo eravamo compatti e ci aiutavamo l’un l’altro. Peraltro giocavamo anche un discreto calcio. Non dimentichiamoci che quell’anno sono retrocesse nientedimeno che Bologna e Milan: due squadre storiche e importantissime. Noi abbiamo certificato la permanenza in serie A nella drammatica gara finale contro la Fiorentina al Sant’Elia. A proposito, il gol di Graziani era chiaramente da annullare: posso confermarlo senza alcun dubbio, visto che ero lì a pochi metri. Tra l’altro l’ho anche detto recentemente a Francesco Casagrande, una bandiera del Cagliari che però quell’anno indossava la maglia viola. Ad essere sinceri, ancora prima della gara con i toscani era stato determinante il gol di Antonio Ravot al 90’ contro il Genoa: una panacea per noi, la vera rete-salvezza di quel campionato.”

Poi, nell’estate 1982, sei passato al Bologna.

“Di fatto sono rientrato alla Sampdoria - che mi aveva girato in prestito al Cagliari - e poi sono finito al Bologna nell’ambito dell’operazione che ha portato Roberto Mancini alla Sampdoria.”

Ma mi pare di capire che, se fosse dipeso da te, saresti rimasto volentieri in Sardegna.

“Stai scherzando? Ma tutta la vita! Anche perché era stato proprio Gigi Riva a volermi a Cagliari, tramite un altro degli eroi dello scudetto rossoblù: Bobo Gori. Riva all’epoca era il direttore sportivo del Cagliari, e siccome io avevo giocato con Gori al Verona Gigi aveva chiesto lumi su di me al suo ex compagno di squadra. Bobo Gori gli aveva parlato molto bene del sottoscritto e così era andato in porto l’affare.”

Antonio, non posso esimermi dal chiederti un parere sul Cagliari attuale. Lo segui ancora?

“Guarda, io non voglio essere presuntuoso, ma non sto più seguendo il calcio. Non mi immedesimo più nelle sue dinamiche, non è più il mio calcio. Alla mia epoca i valori - e l’umanità dietro alle storie di pallone - erano ben diversi. Mi spiego: io sono ancora legatissimo a molti ex calciatori con i quali non ho mai giocato, ma che ben rappresentano lo spirito del mio tempo. Mi riferisco a Gianni Pirazzini, a Giovanni Toschi, ad Augusto Scala e anche ad altri: ci sentiamo settimanalmente, ci teniamo aggiornati sugli sviluppi delle nostre vite, chiacchieriamo del più e del meno. In campo ci davamo tante di quelle botte… Ma poi, a partita finita, ci abbracciavamo e ci baciavamo.

Qualche giorno fa ho visto un match in tivù, e non ho potuto fare a meno di notare dei giovanissimi calciatori che si incamminavano verso gli spogliatoi con le cuffiette alle orecchie, canticchiando e fischiettando allegramente. Ma dai! Noi all’epoca alla sola idea di dover marcare Pulici, Graziani, Boninsegna e Paolo Rossi ce la facevamo addosso. E non parlavamo con nessuno nel prepartita: eravamo troppo tesi e concentrati. Dirò anche una banalità, ma oggi girano tanti di quei soldi che le vere priorità i calciatori le hanno dimenticate.”


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