Matteoli: "Tornare al Cagliari? Ormai sono vecchio. La sardità è qualcosa che rimane a chi nasce e cresce qui"
Gianfranco Matteoli, ex centrocampista ed ex responsabile del settore giovanile del Cagliari, ha rilasciato una lunga intervista al portale vita-sportiva.it:
Matteoli, cosa significa giocare nel Cagliari?
“Cagliari è sempre stata la squadra della regione, l’ambizione dei ragazzi è di giocare nel Cagliari, la sardità è una cosa che ti entra dentro, chi nasce e cresce in queste parti, la sente e la sente anche tanto”.
Nella sua carriera ha rivestito anche il ruolo di team manager del Cagliari, quali sensazioni provava andando in panchina?
“Le sensazioni più belle sono quando giochi, purtroppo non sei tu che decidi quando svolgi altri ruoli. È quando vai in campo che decidi tu, da dirigente, da tecnico, soffri da altri punti di vista, ma sono situazioni diverse, quando giochi tu è un’altra cosa. Comunque, confermo, far parte del Cagliari è molto importante per noi nati in Sardegna”.
Ricordiamo che da responsabile tecnico delle giovanili del Cagliari avviò un progetto di rinnovamento privilegiando i ragazzi dell’isola.
“Quando ho fatto il settore giovanile ho detto che dovevamo lavorare sui ragazzi sardi. Ho sempre creduto che nella nostra isola ci siano talenti. Certo, mi sono detto in quegli anni, che, se capitava qualche fenomeno che veniva da fuori meglio per noi, ma diversamente dovevamo lavorare con i nostri ragazzi. E così, d’accordo con il presidente, abbiamo lavorato sul territorio, una cosa che ha pagato, abbiamo avuto belle soddisfazioni, se si riesce a costituire il gruppo così è una cosa gratificante. Io personalmente da calciatore sono cresciuto con Mino Favini al Como. Non abbiamo vinto un campionato ma nel mio modo di vedere mi piace e mi rende orgoglioso questo tipo di discorso. Importante è la crescita. Iniziare dal settore giovanile e arrivare alla prima squadra”.
Orgoglioso di essere nella hall of fame del Cagliari?
“Sono cose che fanno piacere, anche se ho ragionato nell’essere sempre sé stessi. Per me è importante dare un’immagine positiva, sempre, dare una mano ai ragazzi per fare qualcosa di importante nel calcio. Nella mia testa c’è sempre stato un discorso, cioè quello dell’educazione e del rispetto. Non sempre si diventa calciatori, ma i ragazzi devono crescere come uomini, non so ogni quanti giovani esce un calciatore ma so che chi lavora nel settore giovanile deve innanzitutto trasmettere valori sani. Ed è questo il mio cavallo di battaglia. Io nella mia vita e nella mia carriera ho conosciuto Mino Favini al quale devo tutto, l’essere calciatore. È importante chi ti è vicino quando cresci, e io ho avuto la fortuna di conoscere personaggi che ti danno la spinta per dare qualcosa in più, non solo come calciatori ma anche come uomini. Se si riesce a lavorare su questo aspetto si raggiunge di più”.
Sempre negli anni cagliaritani, venne insignito del Premio Maestrelli per il lavoro svolto con il settore giovanile.
“E’ una delle cose che mi rendono più orgoglioso alla pari di quando ho ricevuto il Premio Scopigno. Sono riconoscimenti che mi fanno veramente piacere, e che onorano il mio lavoro sull’isola. Un lavoro che, come dicevo, ho svolto con i nostri ragazzi, senza averne molti da fuori, non perché avevo riserve nei confronti di chi viene da fuori, ma per me è me importante lavorare con chi è del territorio. Tornando ai premi sono tutti belli, ovviamente, ma devo dire la verità se non hai un gruppo di tecnici vicino, non vinci niente. Se ho vinto premi è perché in quel periodo dirigenti e tecnici hanno lavorato insieme a me per raggiungere risultati di questa portata”.
Cosa pensa della tifoseria sarda?
“La tifoseria è in questo momento il dodicesimo giocatore, giocare a Cagliari adesso è dura per tutti. Nell’ultimo periodo la gente sarda va allo stadio e ti fa volare, ti solleva, si vede che la gente è molto affezionata alla squadra, si vede molto.
Cagliari è la squadra di un’intera regione. Comunque, anche in passato, anche ai miei tempi, la tifoseria sarda è sempre stata molto importante per la squadra”.
Qualche aneddoto legato ai suoi anni da calciatore al Cagliari?
“Sicuramente facciamo un mestiere visibile, ma personalmente sono sempre molto misurato in tutte le cose, non mi sono fatto troppo prendere. Sei una persona come tutti, ma sei stato fortunato. Il resto non conta più degli altri, non sono andato mai oltre. Magari passi per musone, ma è un po’ per timidezza. Quando ti fanno complimenti non sai cosa rispondere, forse questa riservatezza, questa umiltà è un nostro modo di essere sardi”.
A chi sente di ispirarsi tra i grandi miti del calcio sardo?
“Noi da bambini abbiamo avuto chiaramente come mito Gigi Riva ma crescendo ti rendi conto che in quella squadra c’erano campioni, perché hanno vinto. Io credo che in realtà ti ispiri a te stesso. Penso che ognuno di noi sia unico. Ognuno di noi nel giocare, nel suo carattere, nel suo modo di essere è unico”.
Cosa sente di dire alle nuove generazioni del mondo del calcio?
“Ho avuto la fortuna di avere un nonno nel quale mi rivedo, che mi spiegava le cose. I ragazzi oggi hanno tante distrazioni, bisogna stargli vicino, a volte è anche colpa di noi adulti. Dobbiamo essere noi a spiegare alle nuove generazioni certe cose. Dobbiamo essere bravi noi adulti a trasmettere i giusti valori. Proprio ieri un mio amico mi diceva che i giovani perdono fiducia se non gli stai vicino. Se non ci lavori, sono tanti che la pensano come me. Quando giocavamo noi ci dicevano che la generazione di prima era diversa, si diceva il calcio è cambiato. Per me sono frasi comuni, secondo me dobbiamo essere aperti e dialogare. Trasmettere cose positive e stargli vicino, farli crescere. Penso che ai ragazzi si debba insegnarli a giocare al calcio. Se sbagliano uno stop alla palla è perché forse non gli è stato insegnato. Gli allenatori sgridano i bambini a dieci anni, ma io gli chiederei: glielo hai insegnato? Prima c’erano più maestri che ti insegnavano queste cose qua”.
Lei rappresenta idealmente con la sua carriera un legame speciale tra Inter e Cagliari, c’è tra interisti e cagliaritani qualcosa in comune?
“C’è stato un momento in passato tra queste due tifoserie, ma parlo degli anni Novanta. Comunque, a me sono due squadre che mi sono rimaste dentro, come il Como dove ho iniziato a giocare e a dimostrare quello che potevo valere. Ma in tutte le società dove ho militato mi è rimasto qualcosa. Io penso che la carriera di calciatore sia fatta di tante tappe, come si suol dire bisogna farsi le ossa, è tosta, se hai la testa a posto e sei intelligente dalle cose negative esci rafforzato. E oggi come ho spiegato a qualcuno dei nostri ragazzi che è cresciuto ed è andato a giocare in qualche squadra. Ho detto loro, questo è il momento magari di mangiare cose pesanti, ma quando le digerisci, ti rendi conto della realtà e queste cose ti aiutano a crescere”.
Nato a Nuoro, vive a Cagliari, ma tornerà un giorno al Cagliari Calcio?
“Penso che sono abbastanza vecchio ormai. Mi diverto troppo in quello che faccio oggi al Centro Sportivo Simba. Stare con i bambini, insegnare qualcosa, essere in mezzo al campo è il mio modo di vivere. Mi piace tanto e sto bene così. Aiuto gli altri, vado in campo che è la cosa più bella del mondo e non chiedo di meglio”.